LA CORTE DEI CONTI

    Ha emesso la seguente ordinanza n. 02/A/2007/ORD, nel giudizio in
materia  di responsabilita' amministrativa iscritto al n. 1928/A/RESP
del registro di segreteria e promosso dal sig. Nunzio Di Stefano, col
patrocinio dell'avv. Girolamo Rubino, avverso la sentenza n. 496/2006
della sezione giurisdizionale per la regione Siciliana.
    Visti gli atti e i documenti di causa;
    Uditi,  nella  Camera  di  consiglio  del  30 novembre  2006,  il
relatore,  consigliere  Salvatore  Cilia,  l'avv.  Rubino e il V.P.G.
Salvatore Marcinno'.

                              F a t t o

    Con  atto  di  citazione,  depositato in segreteria il 21 gennaio
2004, la Procura regionale ha convenuto in giudizio il sig. Nunzio Di
Stefano per sentirlo condannare al pagamento, in favore del comune di
Agrigento,  della  somma  di Euro 148.390,00 per danno patrimoniale e
dell'ulteriore   somma  di  Euro 74.195,00  per  danno  all'immagine,
nonche'  i  sig.  ri Giacomo Montalbano, Pier Remigio Rosso e Michele
Bella  chiedendone  la  condanna  -  in  regime  sussidiario e con il
beneficio  della preventiva esclussione del Di Stefano - al pagamento
della  somma  di  Euro 24.731,70  ciascuno,  e in favore dello stesso
comune,  per  danno  patrimoniale; inoltre, al pagamento di interessi
legali  e  rivalutazione monetaria sulle predette somme, e alle spese
di giudizio.
    La  vicenda  che  ha  indotto la procura regionale a formulare le
richieste  di condanna trae origine da una indagine disposta, in data
5 maggio  1994,  dall'assessore  comunale  dei servizi demografici, a
conclusione   della  quale  emersero  irregolarita'  ed  ammanchi  di
proventi  nel settore di competenza del Servizio demografico, che, in
particolare,  misero  in  evidenza - per gli anni 1991, 1992 e 1993 -
una  differenza in negativo tra gli importi incassati per il rilascio
dei  certificati  e  gli  importi  effettivamente versati nella cassa
comunale  (in  totale,  per  l'appunto,  Euro 148.390,00);  per  tale
vicenda  ha avuto luogo un giudizio penale (per il reato di peculato)
nei  riguardi  dei  dipendenti  comunale  Nunzio  Di Stefano, Giacomo
Montalbano, Giuseppe Pagano, Giovanni Caltagirone e Diego Sciascia, a
conclusione  del  quale  il solo Di Stefano venne condannato per tale
reato,  mentre gli altri imputati vennero assolti con la formula «non
avere commesso i fatti». (In sede penale, il Di Stefano ha ammesso di
essersi appropriato di parte della predetta somma di Euro 148.390,00,
motivando  la  sua  azione  illecita  con la necessita' di coprire le
spese affrontate per cure mediche apprestate, alla madre, alla figlia
e  alla  moglie,  le  quali  versavano tutte in cattive condizioni di
salute).  Il p.m. ha individuato nella fattispecie tutti gli elementi
costitutivi della responsabilita' contabile.
    Gli  altri  tre  convenuti  sono  stati convenuti in giudizio per
«responsabilita'  di  tipo sussidiario» (a livello di colpa grave) in
quanto,  nella  specifica  qualita'  di capo ripartizione dei servizi
demografici (il Montalbano, per il periodo 1° gennaio 1990/3 novembre
1992,  e  il  Rosso, dal 4 novembre 1992 al 6 gennaio 1994) e di capo
sezione  dell'ufficio  anagrafe  (il  Bella,  dal  6 novembre 1990 al
12 marzo   1993),  «avevano  l'obbligo  di  esercitare  i  poteri  di
organizzazione   e   di   controllo   per   verificare   il  regolare
funzionamento  dell'ufficio cui erano preposti e la corretta gestione
del  pubblico  denaro  incassato  per  il  rilascio  dei  certificati
anagrafici».
    Con  la  sentenza  n. 496/2006 (successivamente ad una precedente
sentenza  parziale  -  n. 1467/2004  -  con  cui era stata dichiarata
l'avvenuta  prescrizione  del  diritto  fatto  valere  dal  p.m.  nei
confronti  dei  sig.  ri Rosso e Bella), la sezione giurisdizionale -
affermando   che   non   risulta   dimostrata  una  parte  del  danno
patrimoniale  contestato  e  la  sussistenza del danno all'immagine -
condanna  il Di Stefano (comportamento doloso) alla somma complessiva
di  Euro 40.283,64  (l'intero  danno  patrimoniale «accertato»), e il
Montalbano (in regime sussidiario e con il beneficio della preventiva
esclussione   del   Di  Stefano)  alla  somma  di  Euro 10.000,00  in
applicazione  del  criterio  equitativo  sancito  dall'art. 1226 cod.
civ.; oltre interessi legali, rivalutazione monetaria e spese legali.
    La  predetta  sentenza  e' stata appellata sia dai due convenuti,
che dalla Procura regionale.
    In  particolare,  nell'atto  di  appello che interessa il sig. Di
Stefano,   l'avv.   Girolamo  Rubino  -  dopo  avere  sostanzialmente
lamentato  il  criterio  adottato  dal  giudice  di primo grado nella
ripartizione  del  danno  erariale,  considerato che il suo assistito
rivestiva, all'interno dell'Ufficio servizi demografici del comune di
Agrigento,  la  qualifica  di mero assistente amministrativo, per cui
appaiono illogiche e incongrue alcune affermazioni (e le conclusioni)
enucleabili  dall'atto di citazione e dalla sentenza appellata (il Di
Stefano sarebbe stato «l'unico dipendente in grado di potere attivare
il  sistema informatico e l'unico a posserdere le chiavi di accesso a
detto  sistema»;  i  capi  Sezione  e  i capi Ripartizione sono stati
convenuti  solo  a  titolo  sussidiario,  e  uno solo di loro risulta
condannato  -  e  per  una  somma minima - a tale titolo) - chiede la
definizione  del  giudizio ai sensi e per gli effetti dei commi 231 e
232 della legge n. 266/2005, applicando i benefici ivi previsiti.
    In  data  5 settembre  2006, la Procura generale ha depositato in
segreteria   un  atto  conclusionale  col  quale  chiede  il  rigetto
dell'appello   presentato   dal   sig.   Di   Stefano  in  quanto  le
argomentazioni  ivi  contenute  appaiono  del  tutto  infondate, e il
parere ex art. 1, commi 231 e 232, della legge n. 266/2005, col quale
chiede  che  l'istanza  formulata  venga  rigettata, sia perche' tali
norme  prevedono  la  facolta'  del  condannato,  in  alternativa, di
scegliere  tra  rito  ordinario  (che  puo' portare alla condanna, ma
anche  all'assoluzione)  e rito speciale (che, comunque, comporta una
condanna),  mentre  nella  specie  il  convenuto  ha  chiesto che «il
giudizio  venga  definito  con l'applicazione dell'art. 1 della legge
n. 266/2005  dopo la richista di accogliere l'appello», senza, cioe',
fare  la  necessaria  (ma  unica)  opzione; sia perche' - ma in linea
assolutamente  subordinata  -  il  comportamento dell'interessato «e'
stato caratterizzata da dolo».
    Chiamando  i  tre  giudizi  all'udienza  del  25 ottobre 2006, la
sezione ha rinviato a nuovo ruolo quelli recanti i numeri 1951/A/RESP
(appello  Montalbano)  e  1963/A/RESP  (appello  Procura),  mentre ha
fissato  per l'altro la camera di consiglio del 30 novembre 2006, nel
corso  della  quale sia l'avv. Rubinio che il V.P.G. hanno confermato
le richieste con i rispettivi atti scritti.

                            D i r i t t o

    In  via pregiudiziale, la sezione deve affrontare le eccezioni di
inammissibilita',  prospettata  dalla  Procura  generale  nei termini
risultanti  dall'ultima  parte  della narrativa, con riferimento alla
richiesta  di  «definizione  agevolata» del giudizio ex art. 1, commi
231,  232  e  233, della legge 23 dicembre 2005, n. 2006; entrambe le
eccezioni  sono  infondate.  La prima (rapporto fra atto di appello e
richiesta  di  definizione agevolata), in quanto, tenendo conto (come
risultera'  dal  prosieguo  della  motivazione)  del  fatto  che tale
richiesta   puo'   essere   formulata   esclusivamente   in  sede  di
proposizione dell'appello, non pare ragionevole ipotizzare che l'atto
di   appello,   se   finalizzato  alla  richiesta  della  definizione
agevolata,   avrebbe   dovuto  limitarsi  ai  «motivi»  del  gravame,
pretermettendo    qualsiasi    richiesta    conclusiva   nel   merito
(probabilmente,  nel maggiore dei casi, di assoluzione), mentre e' da
ritenere  che,  nell'ottica  complessiva della legge, la richiesta di
definizione   agevolata,   apparentemente   (ma  fisiologicamente)  o
subordinata»,  acquisisce  poi - nell'ambito dell'esame della sezione
di  appello - tutte le caratteristiche della domanda «principale»; la
seconda  (natura  dolosa  del  comportamento che ha prodotto il danno
erariale), in quanto tale limite non si rinviene nella legge (in base
alla  interpretazione  che  la sezione ha dato alla normativa de qua,
come e' possibile evincere dalle considerazioni che saranno svolte in
seguito).
    A  questo  punto  il  Collegio  deve  rilevare che l'art. 1 della
citata legge n. 266/2005, pone - ai commi 231, 232 e 233 - i seguenti
(nuovi)  meccanismi sostanziali e processuali applicabili nei giudizi
di  responsabilita' dinanzi alla Corte dei conti per i fatti commessi
antecedentemente  alla  data di entrata in vigore della legge stessa:
1)  «i  soggetti  nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di
condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede
di  impugnazione,  che  il  procedimento  venga  definito mediante il
pagamento  di  somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al
20  per  cento del danno quantificato nella sentenza»; 2) «La sezione
di   appello,   con  decreto  in  Camera  di  consiglio,  sentito  il
procuratore  competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso
di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non inferiore al
30  per  cento  del danno quantificato nella sentenza di primo grado,
stabilendo  il termine per il versamento»; 3) «il giudizio di appello
si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta
di versamento presso la segreteria della sezione di appello».
    Tali  disposizioni,  in  sostanza,  introducono,  nella  fase  di
appello,   un   procedimento   camerale   diretto   alla  definizione
«agevolata»  del  giudizio  di  responsabilita' innanzi alla Corte di
conti;  ma  la  sezione  dubita della legittimita' costituzionale del
complesso di tali disposizioni, per violazione degli artt. 3, 24, 97,
101, 103 e 111 della Costituzione.
    Il  raggiungimento  della  sezione  prende  le  mosse  da  quella
giurisprudenza  costituzionale  (fra  le  altre, sentenze n. 68/1971,
n. 63/1973  e  n. 1032/1988)  in base alla quale la concreta garanzia
dei  principi  costituzionali  di  eguaglianza,  di  andamento  e del
controllo   contabile   sia   sostanzialmente   affidata  alla  legge
ordinaria,   nel   senso   che   sono   riservate   al  discrezionale
apprezzamento  del  legislatore  non  solo  la  determinazione  e  la
graduazione  dei  tipi  e  dei  limiti  di  responsabilita'  che - in
relazione   alle  varie  categorie  di  dipendenti  pubblici  o  alle
particolari  situazioni regolate - appaiono come le forme piu' idonee
a   garantire   l'attuazione  dei  predetti  principi  costituzionali
(sentenza   n. 411/1988   e  ordinanza  n. 549/1988,  nonche'  -  con
riferimento  all'art.  28 della Costituzione - le sentenze n. 2/1968,
n. 123/1972,  n. 164/1982  e n. 26/1987), ma anche la possibilita' di
stabilire un limite patrimoniale della responsabilita' amministrativa
(sentenza n. 340/2001). Cio' sta a significare, in definitiva, da una
parte,  che,  per quanto non sia possibile trarre da taluni parametri
costituzionali  (in particolare, artt. 97 e 103, secondo comma, della
Costituzione)  un  principio  di  inderogabilita' delle comuni regole
della   responsabilita',  si  puo'  tuttavia  ricavare  dagli  stessi
parametri   la  regola  secondo  la  quale  la  discrezionalita'  del
legislatore,  per essere considerata corretta nel suo esercizio, deve
determinare  e  graduare,  caso  per  caso,  i  tipi e i limiti della
responsabilita'  in  riferimento alle diverse categorie di dipendenti
pubblici e alle diverse situazioni concrete, fissando,per ciascuna di
esse,  le forme piu' idonee a garantire i principi del buon andamento
e del controllo contabile (sentenza n. 371/1998); e, dall'altra, che,
in   sede  di  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,  le  leggi
disciplinanti   la   responsabilita'  dei  pubblici  dipendenti  sono
sindacabili,  in  riferimento  ai  parametri  invocati, solo sotto il
profilo  della  ragionevolezza  della  disciplina  adottata  e  delle
diversita'   introdotte   (cioe',   in  relazione  all'art.  3  della
Costituzione).
    Conseguentemente,   pur   non   potendosi  negare,  in  linea  di
principio,  la  possibilita' di un intervento legislativo del tipo di
quello  esaminato  in  questa sede, e' tuttavia pur sempre necessario
che   l'intervento   stesso   sia  strettamente  (e  ragionevolmente)
collegato  alle  specifiche  pecularieta'  del  caso  in modo tale da
escludere  qualsiasi  ipotesi  di arbitrio nella fase di sostituzione
della  disciplina  generale  con  una  (successiva)  eccezione (Corte
costituzionale,  sentenza n. 14/1999), e altre precedenti ivi citate)
sotto  il  profilo  tanto  del rispetto del principio di eguaglianza,
quanto  della  tutela  del  buon andamento e della salvaguardia della
funzione  giurisprudenziale  da  indebite  interferenze  da parte del
potere  legislativo.  Senonche',  rispetto  alle  norme di cui si sta
trattando,  appare alquanto problematica l'individuazione della ratio
che  le  sorregge,  che  non sia quella - puramente e semplicemente -
della   limitazione   del   risarcimento  patrimoniale  del  soggetto
condannato  in  primo  grado,  circostanza  che,  proprio per questo,
caratterizza  l'innovazione  normativa  per la sua irrazionalita' e -
conseguentemente - per la sua arbitrarieta'.
    In  merito,  potrebbe  essere utile richiamare due esempi, tratti
dalla normativa, che - pur eventualmente «criticabili» sul piano lato
sensu «politico» - presentano una ratio che consente di superare, sul
piano  giuridico,  i  dubbi  di  irrazionalita'  e arbitrarieta': uno
concerne  il c.d. «condono fiscale» che, pur attivabile «dinanzi alle
commissioni  tributarie  od  al  giudice  ordinario in ogni grado del
giudizio  e  anche  a seguito di rinvio (da ultimo, art. 16, legge 27
dicembre 2002, n. 289), e' chiaramente finalizzato all'incremento - e
in  termini  brevi  - delle entrate fiscali, oltre a deflazionare, in
qualche  misura,  il contenzioso tributario; un altro, concernente la
«applicazione  della  pena  su richiesta delle parti» (ai sensi degli
artt.  444  e  segg. cod. proc. pen.), che, potendo essere richiesta,
nel  giudizio ordinario, fino alla presentazione delle conclusioni di
cui  agli  artt. 421, comma 3, e 442, comma 3 (e, in caso di giudizio
direttissimo,  fino alla dichiarazione di apertura di dibattimento di
primo  grado), e' chiaramente finalizzata a deflazionare il carico di
lavoro del giudice penale per i reati meno rilenvanti e, al contempo,
a  limitare  drasticamente  le  pene detentive e quindi limitare agli
accessi alle carceri, notoriamente superaffollate.
    Conseguentemente,  raffrontando  le citate situazioni con il caso
che  interessa  in  questa  sede,  a  giudizio della sezione appaiono
violati    gli    artt.    97    (principio    di    buon   andamento
dell'amministrazione   pubblica)   e   103,   secondo   comma,  della
Costituzione  (controllo  contabile) stante che le norme sottoposte a
scrutinio  costituzionale, da una parte, non incidono minimamente (in
senso  riduttivo) sull'entita' del contenzioso contabile (considerato
che  le  norme  stesse operano esclusivamente in sede di appello, nel
cui  ambito  il  sostituire  una  pubblica  udienza con una Camera di
consiglio  e  una  sentenza  con  decreto  e'  sicuramente di piccolo
momento),  e,  dall'altra,  che producono (quasi sicuramente, facendo
astrazione  ovviamente  dall'ipotesi  di  condanna in sede di appello
ordinario)  una minore entrata (fra il 90 per cento e il 70 per cento
del danno quantificato nella sentenza di primo grado), per cui rimane
soltanto  l'irrazionale e incongruo «effetto premiale» (nei confronti
del  convenuto condannato, che, in quanto tale, si appalesa del tutto
ingiustificato.
    D'altra   parte,   la   sezione   ritiene   che   tali  parametri
costituzionali  siano violati anche sotto un altro profilo. Infatti -
premesso che nel sistema vigente l'attenuazione della responsabilita'
amministrativo-contabile  e'  rimessa,  nei  singoli  casi, al potere
riduttivo   del   giudice,   che,  a  tal  fine,  puo'  tenere  conto
(fondamentalmente)    del    comportamento    e    del   livello   di
responsabilita',  ma  anche  delle  capacita' economiche del soggetto
responsabile  -  appare  assolutamente  irragionevole  (e,  in questo
senso,  viene  implicato  anche  l'art.  3  della  Costituzione)  una
riduzione    predeterminata    e    pressoche'    automatica    della
responsabilita' e della misura del risarcimento, lasciando al giudice
una   valutazione  minima  in  ordine  al  comportamento  complessivo
dell'agente  (Corte  costituzionale,  sentenza  n. 340/2001);  con la
ulteriore  conseguenza  che il complesso normativo esaminato potrebbe
incidere  (limitandolo)  sul  principio del «libero convincimento del
giudice»,  violando  cosi' l'art. 101 della Costituzione, limitandolo
anche  nel  senso  che  l'inciso  «in  caso  di  accoglimento»  della
richiesta  del  soggetto condannato (comma 232), non contenendo alcun
criterio  di orientamento per il giudice, comporta - in conclusione e
in  sostanza  - l'assenza di qualsiasi «discrezionalita» nell'an (per
cui il procedimento, in certo qual modo, diventa «obbligatorio».
    A  sua  volta,  il  principio di eguaglianza appare ulteriormente
violato nella considerazione che la normativa e' applicabile soltanto
ai  «soggetti  nei  cui  confronti  sia stata pronunciata sentenza di
condanna»,  con  la  conseguenza  che la situazione concreta potrebbe
rilevarsi  negativa  nei confronti dei soggetti che risultino assolti
in  primo  grado  nel  senso che la relativa sentenza potrebbe essere
appellata  dal  pubblico  ministero  e  che  la  sentenza  di appello
potrebbe  essere di condanna, senza che il convenuto possa fruire dei
vantaggi  della norma «di condono». E' ben vero che, nella specie, si
e'  in  presenza  di  soggetti  condannati  in  primo  grado,  con la
conseguenza  che  la prospettazione che precede potrebbe apparire non
rilevante,  ma,  nell'economia  complessiva  della  normativa, appare
comunque  irrazionale  una  previsione  legislativa  che  esclude dai
benefici  quei  soggetti la cui posizione - dopo la sentenza di primo
grado  -  appare  chiaramente  meno «pesante» di quella dei convenuti
condannati;   mentre   difficilmente   potrebbe   pervenirsi  ad  una
interpretazione  «adeguatrice»,  sono  solo  perche',  in  tale caso,
dovrebbe  superarsi  la «lettera» della «condanna» in primo grado, ma
anche  perche' si dovrebbe «creare» il criterio al quale correlare le
percentuali del 10, del 20 o del 30 previste dalla legge.
  Appare  violato anche l'art. 24 della Costituzione (in particolare,
il  secondo  comma: «La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e
grado  del  procedimento»  nella  parte  in cui il pubblico ministero
presso la Corte dei conti viene evocato nel solo comma 232 e solo per
«essere  sentito» in Camera di consiglio quando la sezione di appello
deve  deliberare  «in  merito  alla  richiesta»;  infatti,  per  tale
funzione,  limitata e marginale (che si sostanzia nell'espressione di
un  «parere»,  del  pubblico  ministero, il procedimento regolato dai
commi  231  -  233  dell'art.  1  della legge n. 266/2005 non assume,
sostanzialmente, carattere bilaterale, per cui la funzione di «parte»
del  pubblico  ministero  contabile  (nell'ottica - anche del «giusto
processo»  -  dell'art.  111 della Costituzione) viene, nella specie,
quasi  pretermessa  (con  la  conseguenza - fra l'altro - che, in tal
modo,  vengono pesantemente compressi i diritti e gli interessi della
pubblica   amministrazione,   dei  quali  il  pubblico  ministero  e'
chiaramente     portatore,     in    uno    all'interesse    generale
dell'Ordinamento).
    Le  questioni  di  legittimita' costituzionale che precedono, non
superabili  in  via interpretativa, sono non manifestamente infondate
per i motivi che precedono e rilevanti in quanto le norme denunciate,
ove  venissero  dichiarate  incostituzionali,  non  potrebbero essere
applicabili  nel presente giudizio, che proseguirebbe secondo il rito
ordinario.